Alla porta di una pizzeria in zona San Gregorio Armeno, Napoli:
“Buonasera, avete un tavolo? Siamo in 10…”
“20 minuti”.
Ci scambiamo un’occhiata reciproca e stabiliamo che vale la pena aspettare. E’ venerdì, sotto le feste, tutti i locali sono pieni. Se vogliamo mangiare aspetteremo. E poi 20 minuti sono un tempo accettabile. Mezz’ora non ce la farei con il bambino affamato e stanco, ma 20 minuti si può fare. Ci sediamo fuori al freddo.
Abbiamo atteso un’ora e un quarto.
I romagnoli del gruppo increduli sul livello di aleatorietà della misura temporale a Napoli, i napoletani che ci accompagnavano con santa pazienza per nulla stupiti ma preoccupatissimi per noialtri.
La pizza era buona, ma non così tanto come ti aspetti a Napoli. Diciamo che il bilancio finora era so and so, e già mi frullava in testa la recensione tiepidina attorno alle 3 palle.
A piatti quasi vuoti arriva il titolare in persona con la mani infarinate ed il grembiule bianco. Mi racconta sorridendo che suo padre, quello presente in tutte le foto alle pareti mentre offre la pizza fritta a Clinton, è morto ed ora lui porta avanti la sua filosofia. Gli deve tutto, e lavora a testa bassa per onorarlo.
Poi mi mostra foto e video di suo figlio, 14 anni, che tutti i pomeriggi dopo scuola va a fare le palle di impasto. Osservo la maestria con cui il ragazzino in 3 secondi e mezzo spiana una palla trasformandola in un disco perfetto che neanche Giotto, così, solo con le mani (e mi sento una triste dilettante in cucina!).
Il piazzaiolo dichiara che il ragazzino è di grande aiuto all’azienda, ogni sera fa 2 o 3000 pizze (mi sembra un numero folle ma non indago oltre…).
Si fa l’ora di andare, anche perché fuori ci sono altri affamati stanchi che aspettano, poverini, ed ho rivisto la mia idea sulla recensione che farò. Sarà buona.
Mettendomi il giubbotto noto che il pizzaiolo più o meno ripete il racconto tavolo per tavolo, cambiando lingua in base alla nazionalità dei clienti.
Nel salutarci, stringe la mano ad ognuno di noi con un sorriso aperto e guardandoci negli occhi, ci consegna un biglietto da visita a testa e chiede la recensione su Trip.
Mi ha completamente confusa, sarà la stanchezza, ma mi ha infinocchiata per benino…
Alla fine la recensione non l’ho fatta proprio. Ho invece riflettuto sul modo scientifico con cui questo piazzaiolo ha gestito tutta la questione. Riassumo la procedura:
- Mente spudoratamente sui tempi di attesa, però ti tiene lì buono uscendo ogni 8/10 minuti a placare gli animi
- Servizio veloce, pizza buona, ma non fra le migliori della città
- Contatto personale con racconto famigliare e attenzione massima, occhi negli occhi e battuta prontissima
- Saluto uno ad uno e richiesta esplicita di recensione positiva.
Il tempo di riflettere sulla questione ed è già ora di pranzo del giorno dopo e il nostro amico/guida autoctono ci infila nei Quartieri Spagnoli perché si ricorda che diversi anni prima andava a mangiare in un basso napoletano (una stanza a livello strada, con un’unica apertura, quella da cui entri). Nei bassi ci vivono, ci lavorano, tutto insomma…
“Buongiorno, ci sta Peppino?”
“Peppino s’è avviato 5 anni fa…”
(Mi sono innamorata all’istante di tanta delicatezza nel linguaggio, io avrei detto “è morto”, quanta grezzuria!)
“…e la signora?”
“Sta a riposo”. (In pensione? Molto anziana?)
“Avete un tavolo?”
“Un quarto d’ora.”
Alziamo gli occhi al cielo e ci rassegniamo ad un’altra ora di attesa, stavolta con vista sullo stendino coi panni della signora di fronte, legato con lo spago alle persiane se no o se lo ruba qualcuno o se lo porta via una macchina.
8 minuti e siamo seduti al tavolo. Mangiato bene, servizio cortese, nessuna richiesta di recensione.
Il mondo è bello perché è vario.